L’ingegnere irlandese Conor Walsh ha sviluppato un dispositivo robotico soffice per sostenere la deambulazione in persone con disordini neurologici. In questa intervista Walsh racconta la nascita e lo stato attuale del progetto (da “Le Scienze” n. 581, gennaio 2017))di Giovanni Spataro

Un aiuto robotico per far tornare a camminare soggetti con problemi motori. L’idea è di Conor Walsh, trentacinquenne irlandese che fa ricerca alla Harvard University, e non è affatto peregrina. Ha già attirato l’attenzione di importanti finanziatori pubblici ed è stata da poco premiata con il Rolex Awards for Enterprise 2016, riconoscimento pensato per persone con idee originali che vogliono cambiare il mondo.

In effetti l’approccio di Walsh è assai diverso da quello seguito finora in robotica. Scordatevi esoscheletri rigidi e pesanti, di quelli, per intenderci, proposti in film di fantascienza. La soluzione di Walsh passa per una sorta di tuta, cioè un insieme di cavi, sensori, attuatori, unità di elaborazione dati e fasciature morbide che un soggetto può indossare senza sentirsi costretto in una struttura ingombrante e fissa, senza interfacce che penetrino nel corpo.

Grazie a questo sistema il soggetto può sperimentate una camminata assistita, l’ideale per persone con difficoltà deambulatorie, per esempio pazienti colpiti da ischemia cerebrale – 15 milioni ogni anno secondo la World Heart Federation – al centro dell’attenzione di Walsh e colleghi, tramite una collaborazione con l’Università di Boston.

A proposito di colleghi, durante il giro ad Harvard, dove lo abbiamo incontrato qualche settimana prima della premiazione per farci raccontare come è nata e come funziona la tuta robotica, il ricercatore irlandese ha sottolineato spesso il ruolo dei suoi circa 30 collaboratori nello sviluppo del progetto: è un lavoro di gruppo, ha spiegato, in cui ognuno è importante.

Come le è venuta in mente l’idea?
Quando ero dottorando al Massachusetts Institute of Technology (MIT) lavoravo con esoscheletri rigidi

e avevo capito che aumentare le capacità delle persone in salute con questo approccio era una grande sfida. Così, quando in seguito sono diventato faculty member ad Harvard, ispirato da lavori di miei colleghi che lavoravano con la robotica soft, ho pensato che sarebbe stato bello rendere indossabile quella robotica soffice, in modo che potesse dare alle persone un impulso di energia al tempo giusto, e quindi farle muoversi e camminare in modo più efficiente.

Gli aspetti chiave di questa tuta, la exosuit, sono emersi fin dall’inizio, quando c’era un programma della statunitense Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) mirato a proposte per la costruzione di un robot indossabile, grazie a cui aiutare le persone a camminare in modo più efficiente. Vista la mia esperienza al MIT con gli esoscheletri, mi sono detto: «Ehi, proviamoci! Possiamo possiamo fare qualcosa di interessante». L’idea è stata una combinazione tra il mio arrivo ad Harvard, e quindi essere ispirato dai colleghi, e la richiesta della DARPA.

Una tuta per tornare a camminareUn test di laboratorio alla Harvard University (Cortesia Rolex/Fred Merz)È vero che stato ispirato anche da un articolo pubblicato su «Scientific American»?
Sì, è vero. All’inizio di tutto questo percorso, quando mi ero appena laureato al Trinity College di Dublino, cercavo di capire che cosa avrei voluto fare dopo. Stavo leggendo un articolo su «Scientific American», in cui c’era un esoscheletro di un progetto della DARPA sulla robotica indossabile per soldati, ed è stato una vera ispirazione. Mi sono detto che avrei voluto lavorare con quella robotica lì, per me era diventata la cosa più bella. Così ho fatto domanda al MIT, dove stava per iniziare un programma che si sarebbe concentrato sugli esoscheletri. Sarebbe stata la mia prima volta con questi dispositivi.

Quando è iniziato il progetto?
Abbiamo cominciato nel 2012; per il primo prototipo sono stati necessari sei mesi, era un prototipo molto rozzo, per il secondo abbiamo impiegato nove mesi. Abbiamo un nuovo prototipo in media ogni anno.

La tuta robotica che state sviluppando può essere utile sia a pazienti con una storia di ictus sia a soggetti in salute?
La tecnologia è di fatto la stessa per entrambi, abbiamo motori, cavi sensori, componenti attaccati alle gambe che monitorano i movimenti di una persona e determinano il momento in cui dovrebbe esserci un’assistenza. Abbiamo iniziato su persone in salute perché è più facile effettuare test e sviluppare la tecnologia. Una volta provato che la tecnologia è sicura, abbiamo cercato di capire quali pazienti potessero trarne maggior beneficio e ci siamo rivolti a quelli con ictus perché è un problema enorme. Spesso sono persone con disabilità fisiche, non riescono a camminare bene. Ci siamo chiesti se fosse possibile dare a questi pazienti una spinta al momento giusto in modo da riportare i loro movimenti a un livello un po’ più normale. Quindi la tecnologia è molto simile, deve solo essere adattata a ciascun individuo.

Quali sono gli ostacoli principali?
La parte più importante di questo progetto riguarda l’abbigliamento, le parti che vanno sul corpo e il tessuto. Dobbiamo pensare ai cavi, a come attaccarli alla persona in modo che non si muovano troppo e che non siano scomodi. Quindi l’idea di ancorarli e attaccarli al corpo è stato un punto centrale del nostro lavoro.

Una tuta per tornare a camminareLa exosuit di Walsh e collaboratori montata su un manichino (Cortesia Rolex/Fred Merz) Durante la visita ai laboratori ha sottolineato l’importanza dello sviluppo della robotica in tempi recenti
Nell’ultimo decennio il settore della robotica ha accelerato parecchio. Motori, batterie, microprocessori, componenti elettronici, tutto questo sta migliorando. Ne abbiamo tratto beneficio in termini di miniaturizzazione e prestazioni, abbiamo potuto bilanciare questi avanzamenti e integrarli in un sistema molto leggero e portatile per una persona. Quando ho iniziato al MIT, più di dieci anni fa, guardavo alla robotica un po’ come alla fantascienza, qualcosa da poter fare solo in laboratorio. Ora invece stiamo vedendo differenti aspetti dei robot che iniziano ad apparire nella società; vediamo automobili che si guidano da sole e molte aziende che hanno messo in commercio prodotti per la robotica indossabile. Se me lo avessero chiesto dieci anni fa, non avrei pensato che tutto questo sarebbe potuto accadere.

Ci sarà spazio per l’intelligenza artificiale nel vostro esoscheletro soffice?
Abbiamo sensori che monitorano come si sta muovendo una persona, e usiamo quelle informazioni per assistere la persona osservando tempo e livello della velocità di assistenza. Come prossimo passo possiamo pensare a un sistema che impari come cammina una persona. Per esempio, nel caso di un paziente con ictus, se il sistema inizia ad assistere il soggetto, potrebbe imparare che sta migliorando e potrebbe continuare a rilevare parametri e cambiare la tempistica dell’assistenza in modo da rendere i parametri specifici allo stile della camminata di quella persona. Credo sia un concetto interessante su cui lavorare.

Quali risultati avete ottenuto?
Su soggetti in salute abbiamo registrato risultati entusiasmanti. Quando indossano la tuta possiamo farli camminare con uno sforzo minore del sette per cento. I pazienti con ictus possiamo farli camminare più simmetricamente, possiamo aiutarli a camminare più speditamente e con meno energia.

Quanto è distante l’applicazione clinica?
Per ora abbiamo effettuato numerosi trial con pazienti per aiutare i ricercatori a sviluppare la tecnologia. Ora che la tecnologia sta diventando più raffinata pensiamo che il prossimo grande passaggio sarà far diventare il nostro prototipo un prodotto grazie all’azienda con cui abbiamo una partnership, la ReWalk Robotics. Questo prodotto sarà testato in trial clinici.

Una tuta per tornare a camminareWalsh e un suo collaboratore assemblano la tuta su un manichino (Cortesia Rolex/Fred Merz)La vostra tuta robotica potrebbe essere utile anche per pazienti con problemi diversi rispetto all’ictus?
Abbiamo tutto per adattare la tecnologia e farla funzionare a dovere con pazienti con morbo di Parkinson oppure sclerosi multipla, per esempio. È qualcosa che ci piacerebbe fare in futuro. Tuttavia abbiamo iniziato con l’ictus perché abbiamo ritenuto che fosse un problema di dimensioni notevoli.

Oltre alle gambe questa tecnologia potrebbe essere sviluppata per altre parti del corpo?
Sì, ci siano concentrati sulla caviglia e possiamo mirare all’articolazione dell’anca in alcuni pazienti. Ci sono casi in cui si può voler aiutare pazienti a sollevare le braccia od oggetti, effettuare attività quotidiane. È un’altra area che potrebbe essere interessante. Stiamo sviluppando diversi approcci per le braccia, da cui potrebbero trarre beneficio persone con lesioni spinali, aiutandole a sollevare gli arti superiori e ad afferrare oggetti.

Quale potrebbe essere l’utilità per persone in salute?
Per esempio per i soldati, che trasportano carichi pesanti, come 45 chilogrammi per una ventina di chilometri di camminata, la tuta potrebbe essere di aiuto, potrebbe farli stancare meno durante marce del genere e diminuire gli infortuni. Magari un giorno anche le persone che vorranno fare escursioni potranno indossare uno di questi sistemi ed essere attive per un tempo più lungo.

Qual è il budget per questo progetto e quanto costerà la tuta una volta sul mercato?
Non sono sicuro dell’esatto budget corrente, ma siamo nell’ordine di diversi milioni di dollari negli ultimi due anni, ricevuti da DARPA e National Science Foundation. Riguardo al costo una volta sul mercato, è la parte più difficile da dire per me. Non siamo concentrati sulla produzione. Tutto quello che posso dire è che gli esoscheletri già sul mercato costano tra 70.000 e 200.000 dollari, ma pensiamo che il nostro sistema avrà prezzi più accessibili. La versione medica dovrebbe essere pronta tra tre anni.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Le Scienze” n. 581, gennaio 2017)

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CHI E’
Conor Walsh è John L.Loeb Associate Professor di ingegneria meccanica e biomedica alla Harvard John A. Paulson School of Fengineering and Applied Sciences, e Core Faculty Member al Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering della Harvard University dove dirige l’Harvard Biodesign Lab, che ha fondato nel 2012.
Irlandese di nascita e istruzione, con una laurea in ingegneria meccanica e manifatturiera al Trinity College di Dublino, Walsh ha ottenuto un PhD in ingegneria meccanica al Massachusetts Institute of Technolgy prima di trasferirsi ad Harvard per fare ricerca in ingegneria ispirata alla biologia e tecnologie indossabili, che hanno fruttato finora oltre 30 rinconoscimenti pubblici e professionali, oltre una decina di domande di brevetto e oltre 100 pubblicazioni scientifiche.

Source: Le Scienze Medicina